Pamela Noutcho Sawa, la favola dell’infermiera campionessa di boxe: «Sogno di vincere con il tricolore»
Pamela dopo la vittoria dei campionati italiani e a destra in ospedale
«Macché! Non sono per niente tranquilla. Anzi divento aggressiva». Pamela è una combattente e sa per esperienza diretta che sul ring non c’è niente di più pericoloso di un avversario tranquillo e sicuro di sé. «Già, perché non sai mai cosa farà. Ma io non sono così. Devo migliorare». Sarà. Intanto da pochi giorni, Pamela Malvina Noutcho Sawa è diventata una campionessa, ha vinto il campionato italiano assoluto nella categoria 64 chili (dilettanti) e richiamato l’attenzione dei media nazionali. La sua storia unisce tre narrazioni. È figlia di immigrati del Camerun, è una donna che ha scelto di fare pugilato ed è un’ infermiera in epoca Covid. Subito dopo la vittoria ha incassato i complimenti del presidente dell’ordine degli infermieri di Bologna, Pietro Giurdanella: «Siamo orgogliosi della sua tenacia».
Le origini
Pamela è nata in Camerun. È arrivata in italia a otto anni. Adesso ne ha 28 e lavora al pronto soccorso dell’ospedale Maggiore a Bologna. Divide l’appartamento con tre persone e in casa non ha lo spazio per appendere da qualche parte il sacco su cui scaricare i pugni. Il suo allenatore si chiama Alessandro Danè che l’allena in una palestra del quartiere della Bolognina dove nel 1989 ci fu la storica svolta del Pci. Il suo incontro con la boxe è iniziato otto anni fa, in un centro di accoglienza per i senza fissa dimora bolognese. «Ci andavo per fare il tirocinio. C’era una palestra che avevano creato per migliorare lo stato psicofisico degli ospiti. Un giorno qualcuno mi invitò a indossare i guantoni. Io odiavo la boxe perchéda piccola mi chiamavano Tyson per i miei grossi muscoli. Sono salita sul ring stimolata da una canzone del mio cantante preferito, un sudcoreano che elogiava la boxe».
Non è ancora «italiana»
Pamela saltella. Gli allenamenti sono duri soprattutto prima degli incontri. Il suo allenatore la stuzzica. «Non mollare, devi schivare, muovi le gambe, il destro, il gancio, ancora il destro». E Pamela saltella. Non molla. Solo una volta ha beccato ganci micidiali. Da una campionessa brasiliana, una di quelle potenze che si avvertono sul ring. «Era un match dimostrativo. L’accordo era di non darci dentro. Invece io ho provato a colpirla e l’ho come svegliata. Il match è diventato vero, combattuto. Così mi ha assestato quei colpi forse per mettermi in riga». Pamela vorrebbe andare a combattere a Las Vegas («chi è che non lo sogna?»). Incrociare le più forti in Italia della sua categoria. Partecipare ai giochi olimpici. Ma non può. Non fa parte della nazionale. «Non ho la cittadinanza». Tra burocrazia del Camerun e italiana i tempi si dilatano. Sono passati dieci anni da quando ne ha fatto richiesta. Non è ancora «italiana». Vive qui da 20 anni, ha studiato dalle elementari alla laurea breve, ha un lavoro ed è una campionessa nazionale.
«Eravamo eroi»
Del Camerun le restano i ricordi del rosso della terra e qualche piatto che ogni tanto cucina sua mamma. Che non voleva che diventasse pugile. «È roba per maschi. E poi ti colpiranno la pancia e non resterai incinta. Ti sfigureranno il volto e non troverai marito. Mia madre mi diceva cose così. Figurarsi! Magari fosse solo quello il problema del trovare marito...». Pensa alla pandemia, al suo lavoro per niente facile. «Per fortuna siamo un gruppo di infermieri molto unito. C’è stata la fase in cui eravamo eroi nazionali. Ci arrivavano regalini e dolcetti. Poi il clima è cambiato. Siamo diventati antipatici. Non so darmi una spiegazione». Ritorna alla boxe. «Mi piace perché è nobile. Tutti hanno rispetto. Non ci sono forme di razzismo. Ci abbracciamo. Le cose che mi fanno male sono altre. Una volta in corsia una signora anziani mi ha detto: “Anche mia figlia vorrebbe fare l’infermiera. Ma perché tu sì e lei no?”. Intendeva farmi capire che quello non era il mio posto». Ha appena finito di fare allenamento. La notte prima ha lavorato in ospedale. «Adesso devo proprio andare, ho bisogno di riposare».
Fonte: Corriere della Sera
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