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Partigiane

Storia delle donne nella Resistenza italiana 

La storia delle donne nella Resistenza italiana rappresenta una componente fondamentale per il movimento partigiano nella lotta contro il nazifascismo. Esse lottarono per riconquistare la libertà e la giustizia del proprio paese ricoprendo funzioni di primaria importanza.

In tutte le città le donne partigiane lottavano quotidianamente per recuperare i beni di massima necessità per il sostentamento dei compagni e trasportavano risorse poiché considerate meno pericolose. Vi erano gruppi organizzati di donne che svolgevano propaganda antifascista, raccoglievano fondi ed organizzavano assistenza ai detenuti politici ed erano impegnate anche nel mantenimento delle comunicazioni oltre che nelle operazioni militari.

Le donne che parteciparono alla Resistenza, facevano parte di organizzazioni come i Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e le Squadre di Azione Patriottica (SAP), e inoltre, fondarono dei Gruppi di difesa della donna, "aperti a tutte le donne di ogni ceto sociale e di ogni fede politica o religiosa, che volessero partecipare all'opera di liberazione della patria e lottare per la propria emancipazione",per garantire i diritti delle donne, sovente diventate capifamiglia, al posto dei mariti arruolati nell'esercito.

Dall'interno delle fabbriche (dove avevano preso il posto degli uomini impegnati in guerra), organizzarono scioperi e manifestazioni contro il fascismo.

Il ruolo delle donne nella resistenza

I compiti ricoperti dalle donne nella Resistenza furono molteplici: fondarono squadre di primo soccorso per aiutare i feriti e gli ammalati, contribuirono nella raccolta di indumenti, cibo e medicinali, si occuparono dell'identificazione dei cadaveri e dell'assistenza ai familiari dei caduti.

Si sono inoltre rese indispensabili alla collettività partigiana: oltre che cucinare, lavare, cucire e assistere i feriti, partecipavano alle riunioni portando il loro contributo politico ed organizzativo e all'occasione sapevano anche cimentarsi con le armi. Particolarmente prezioso era il loro compito di comunicazione: con astuzia riuscivano sovente a passare dai posti di blocco nemici raggiungendo la meta prefissata: prendevano contatto con i militari e li informavano dei nuovi movimenti.

Le loro azioni erano soggette a rischio quanto quelle degli uomini e quando cadevano in mano nemica subivano le più atroci torture. Erano brave nel camuffare armi e munizioni: quando venivano fermate dai tedeschi con addosso qualcosa di compromettente, riuscivano spesso ad evitare la perquisizione, dichiarando compiti importanti da svolgere, familiari ammalati, bambini affamati da accudire. Parlando della sfera familiare, le donne parlavano infatti una lingua universale capace di suscitare sentimenti e sensibilità nascoste.

Nell'epoca del secondo conflitto mondiale le donne acquisirono un ruolo importante anche a livello economico-produttivo. Mentre gli uomini venivano richiamati alle armi, esse dovettero sostituirli nell'industria e nell'agricoltura. Le donne lavoravano soprattutto nel settore tessile, alimentare e industriale, ma erano presenti anche in larga misura nella catena di montaggio, nei pubblici impieghi e nei campi, dove affrontavano le attività più faticose, tradizionalmente riservate agli uomini.

In questi settori spesso, organizzavano manifestazioni, al grido di slogan come "Vogliamo vivere in pace" oppure "Vogliamo pane, basta con gli speculatori". Soprattutto nelle campagne, mettevano a disposizione le loro case, rischiando anche la vita, per aiutare i feriti, i convalescenti e dare rifugio alle persone in fuga. Molto importante era anche l'attività che le donne svolgevano nella raccolta di fondi, finalizzata a dare aiuto ai parenti degli arrestati, delle vittime dei nazifascisti e anche alle famiglie dei partigiani particolarmente bisognosi. Intensa fu anche la loro attività di propaganda politica, nonché gli atti di sabotaggio e di occupazione dei depositi alimentari tedeschi.

 

Le staffette partigiane

Il ruolo della staffetta, era spesso ricoperto da giovani donne tra i 16 e i 18 anni, per il semplice fatto che si pensava destassero meno sospetti e che non venissero quindi sottoposte a perquisizione. Le Staffette avevano il compito di garantire i collegamenti tra le varie brigate e di mantenere i contatti fra i partigiani e le loro famiglie; in alcuni casi avevano anche il compito di accompagnare gli eventuali resistenti. Senza i collegamenti che loro assicuravano, tutto si sarebbe fermato ed ogni cosa sarebbe stata più difficile.

All'interno della brigata, la staffetta aveva spesso anche il ruolo fondamentale di infermiera, tenendo i contatti con il medico e il farmacista per curare i soldati dalle ferite procurate in battaglia e dai pidocchi.

Le Staffette non erano armate e per questo il loro compito era molto pericoloso. Il loro obiettivo era quello di passare inosservate: infatti erano vestite in modo comune, ma con una borsa con doppio fondo, per nascondere tutto ciò che dovevano trasportare. Altri collegamenti che si rivelarono indispensabili sin dagli inizi della guerriglia erano i collegamenti che tenevano le staffette tra città e montagna. Specie nei momenti più difficili, le staffette recuperavano e mettevano in salvo molti feriti e sbandati e ripristinavano quasi tutti i collegamenti che l'operazione nemica aveva interrotto.

Percorrevano chilometri in bicicletta, a piedi, talvolta in corriera e in camion, pigiate in un treno insieme al bestiame, per portare notizie, trasportare armi e munizioni, sotto la pioggia e il vento, tra i bombardamenti e i mitragliamenti, con il pericolo ogni volta di cadere nelle mani dei nazifascisti.

Durante gli spostamenti, erano sempre in prima linea: quando l'unità partigiana arrivava in prossimità di un centro abitato, era la staffetta che per prima entrava in paese per assicurarsi che non vi fossero nemici e dare il via libera ai partigiani, per proseguire nella loro avanzata. La figura della Staffetta fu molto rispettata e fu il ruolo più riconosciuto per la pericolosità e l'importanza. Una delle staffette a cui è stata conferita la medaglia d'oro al valor militare è Carla Capponi, partigiana italiana scomparsa nel 2000.

 

Le combattenti

Tante furono le donne che combatterono al fianco dei partigiani contro il nazifascismo.

Il 1º distaccamento di donne combattenti sorse in Piemonte alla metà del 1944 presso la Brigata garibaldina "Eusebio Giambone" fu una delle tante brigate partigiane nate durante la Resistenza, legate prevalentemente al partito Comunista, ma militavano anche esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale, del Partito Socialista Italiano, del Partito d'Azione o della Democrazia Cristiana, a Genova ne sorse un altro che prese il nome di una patriota fucilata da fascisti, un battaglione nacque nel 1944 nel Biellese ed era costituito da operaie tessili della Brigata "Nedo".

Imbracciarono le armi, si misero al fianco degli uomini e in alcuni casi venivano scelte come capi squadra e dirigevano l'intera brigata.

Un esempio è quello dato da Carla Capponi, che partecipò alla Resistenza romana e divenne vice comandante di una formazione operante a Roma. I compagni le avevano impedito il possesso di armi, perché preferivano che si occupasse di altre mansioni; così nell'ottobre del 1943, sopra un autobus affollato, Carla rubò una pistola ad un soldato della GNR che si trovava al suo fianco. Nel 1944 fu tra gli organizzatori dell'Attentato di via Rasella contro una formazione dell'esercito tedesco (da questo atto i nazisti ne presero pretesto per il massacro delle Fosse Ardeatine). È stata decorata con la medaglia d'oro al valor militare per le numerose imprese a cui ha partecipato ed è stata riconosciuta partigiana combattente con il ruolo di capitano.

Utilizzando le armi, le donne, invasero all'epoca un mondo prettamente maschile, ma non lo fecero per sentirsi importanti: fu una questione di necessità in una situazione dove era giusto collaborare per una causa che coinvolgeva l'intera popolazione.

Nelle formazioni nei primi tempi vi furono delle contestazioni da parte di alcuni partigiani, contro la presenza femminile, ma alla fine anche i più scettici dovettero ricredersi. Le donne combattevano al fianco degli uomini, nelle montagne, al freddo, in alcuni casi si dedicavano a delle vere e proprie azioni di sabotaggio militare, mettendo a rischio la loro vita. Si venne a creare all'interno delle brigate un vero e proprio rapporto d'amicizia tra le donne e i partigiani, salvo alcune eccezioni che vennero denunciate e discusse severamente. Le donne portarono soprattutto un forte supporto morale all'interno del gruppo, essenziale in quei momenti così difficili. Tante sono state le donne combattenti catturate e seviziate, portate in campi di concentramento e poi condannate a morte.

 

Le rappresentanti delle istituzioni

Nelle realtà geo-politiche create nel corso della guerra di liberazione, le donne coprirono anche ruoli di responsabilità istituzionale. È il caso di Gisella Floreanini, la prima donna in Italia a ricoprire un incarico governativo nella Repubblica partigiana dell'Ossola, tra il settembre e l'ottobre del 1944. Donna colta e intelligente, divenne subito un punto di riferimento per gli antifascisti italiani. Fu responsabile dei Gruppi di difesa della donna e le fu affidato l'incarico di Commissario all'assistenza e ai rapporti con le organizzazioni di massa della Repubblica dell'Ossola.

Il suo contributo nei "quaranta giorni di libertà" della Repubblica dell'Ossola, (questa Repubblica esistette dal 2 settembre al 22 ottobre 1944, i partigiani attaccarono le truppe fasciste sconfiggendole e proclamando così la repubblica. Per questo motivo questo periodo viene chiamato "quaranta giorni di libertà") fu essenziale tanto che ne divenne il simbolo.

Tra il 1944 e il 1945, raggiunse le formazioni garibaldine nella Valsesia e continuò la lotta. Proprio in quel periodo, divenne Presidente del Comitato per l'organizzazione delle donne. Alla fine del conflitto venne nominata componente della Consulta Nazionale e successivamente venne eletta deputata alla Camera dei deputati.

Un'altra donna che ricoprì nella Resistenza ruoli di carattere politico fu Nilde Iotti. Giovanissima seguì le orme del padre, morto quando lei era ancora adolescente, e si iscrisse al PCI (partito comunista italiano). La sua prima funzione nella Resistenza fu quella di porta-ordini. Il suo primo impegno importante fu quello di responsabile dei gruppi di difesa della donna essenziali nella raccolta di indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani.

Dopo il Referendum del 2 giugno del 1946, Nilde Iotti fu eletta in Parlamento, prima come semplice deputato e poi come membro dell'Assemblea Costituente e contribuì a creare l'articolo 3 della Costituzione italiana dove si sancisce l'uguaglianza dei cittadini: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".

 

La Resistenza taciuta

Per decenni a livello storiografico ed istituzionale il contributo delle donne alla Resistenza non è stato mai adeguatamente riconosciuto, rimanendo relegato ad un ruolo secondario, che scontava "di fatto" una visione in cui anche la Lotta di Liberazione veniva "declinata" al «maschile». I dati ufficiali della partecipazione femminile alla Resistenza hanno scontano inoltre criteri di riconoscimento e di premiazioni puramente militari, non prendendo in considerazione i "modi diversi", ma non per questo meno importanti, con cui le donne parteciparono ad essa. Per questi motivi si parla di Resistenza taciuta.

 

Alcune cifre

Il numero di donne che contribuì alla Resistenza Italiana, secondo alcune fonti, fu molto elevato. Il loro supporto cominciò fin dagli inizi della lotta partigiana, fino all'aprile del 1945, quando vi fu la liberazione dell'Italia dai nazisti.

Stando ad alcuni calcoli fatti dall'ANPI, furono 35.000 le "partigiane combattenti", 20.000 le patriote, con funzioni di supporto, 70.000 le donne appartenenti ai Gruppi di difesa, per la conquista dei diritti delle donne, 16 medaglie d'oro e 17 medaglie d'argento, 512 le commissarie di guerra, 4.633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania.

Alcune stime della partecipazione femminile alla Resistenza:

 

Origine sociale e retroterra culturale

La Resistenza è un fenomeno collettivo non espressione di un élite, una vera reazione del popolo. Nel mondo rurale e soprattutto tra le donne, la coscienza antifascista maturò lentamente, esclusivamente all'interno del contesto familiare, legata tutt'al più a ricordi di episodi di violenze fasciste subite dai familiari o di danni alle proprietà.

Diverso è invece il discorso per le donne di città oppure per quelle che vivendo nei paesi collinari o montani, avevano una diversa qualifica professionale, erano insegnanti, impiegate o artigiane. In questi ambiti era infatti più diffusa l'insofferenza verso il regime e c'era un'avversione più netta per al fascismo e a Mussolini, maturata in famiglia e sui banchi di scuola.

Il fascismo, tentò di escludere le donne da ogni attività extrafamiliare e di riaffermare l'ideale della donna come "angelo del focolare", ma la propaganda scatenò la reazione di una parte consistente del mondo femminile. Donne giovani e anziane intellettuali, studentesse e professoresse, ma anche e soprattutto donne provenienti dal popolo, dalle fabbriche, dai campi. Le donne cominciarono a manifestare e protestare, nelle piazze il loro dissenso contro il regime.

Le donne delle città erano maggiormente agganciate all'attività dei GAP e delle SAP. Talvolta le donne dotate di cultura più elevata, organizzavano delle riunioni private a carattere politico. Tra le donne di campagna invece, era prevalente il sostegno pratico alle attività partigiane piuttosto che la diretta partecipazione alle attività belliche o politiche.

Nacquero giornali femminili, dove tra i tanti titoli si poteva leggere: "anche noi siamo scese in campo" oppure "tutte le donne hanno preso il loro posto in battaglia". Ad accrescere ancora di più il ruolo politico della donna nella Resistenza, furono i GDD (Gruppi di Difesa della Donna), il primo nato nel 1943 a Milano da alcune donne del CLN.

 

Figure particolari

Furono numerose le donne che presero parte alla Resistenza. Anche se la maggior parte delle loro storie è stata oggi dimenticata, di alcune sono rimaste testimonianze preziose. Nel volume "La collina della lucertole" di Vittorio Civitella, è raccontata la storia di Francesca Laura Wronowski Fabbri (parente di Giacomo Matteotti). Sfollò da Chiavari nel 1944 insieme alla famiglia, per recarsi in una casa di campagna in alta Val Fontanabuona, dove lì si creò il centro di un'attività di resistenza clandestina, coordinata dal cognato Antonio Zolesio (pseudonimo di copertura Umberto Parodi).

Ad essa aderì Francesca Laura Wronowski (nome di battaglia "Laura"), anche se tutti la chiamavano "Kiki" e con questo nome è indicata nei ruoli organici della Brigata Lanfranconi (Brigata GL-Matteotti), distaccamento "Ventura", dove svolgeva compiti di infermiera-tuttofare. Aveva iniziato non ancora ventenne come staffetta-informatrice al fianco di Zolesio e tra il giugno e luglio del 1944, insieme a "Giovanna" (Maria Gemma Ratto, una delle più fide e determinate collaboratrici di Umberto), prepara all'azione compiuta contro il Campo di Concentramento di Calvari. Laura e Maria Gemma fecero da guide al commando attraverso il passaggio di Canevale.

All'interno della Brigata Lanfranconi (Brigata GL-Matteotti), l'attività quotidiana di Laura e dei suoi compagni, consisteva nel sopravvivere e nell'addestrarsi con le armi; non solo dovevano cercare di recuperare del cibo dai contadini delle zone, tenere pulito il "casone" nel quale vivevano, ma uscivano anche in missione di guerriglia, minavano ponti, interrompevano le comunicazioni e attaccavano i convogli.

Un determinante contributo che Laura diede alla Resistenza, lo diede anche Iris Versari che nel 1943 divenne staffetta della banda di Silvio Corbari e nel gennaio del 1944 combattente della formazione. Iris prende parte a molti combattimenti, ma nell'agosto del 1944, venne ferita ad una gamba e insieme ai compagni si rifugiò in una casa, sorpresa da tedeschi e fascisti. Trovandosi ad essere di "peso" perché ferita e impossibilitata a fuggire, esortò fino all'ultimo i compagni a scappare e consapevole della sorte che le sarebbe capitata nelle mani nemiche si tolse la vita. I fascisti trasportarono il cadavere di Iris a Forlì in Piazza Saffi dove lo appesero insieme a quello dei suoi compagni di lotta. Il 16 aprile del 1976, le viene concessa la medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

Irma Bandiera, staffetta nella 7ª G.A.P, divenne combattente con il soprannome di "Mimma". Fu catturata dai nazifascisti mentre stava rientrando a casa da Castelmaggiore, dove aveva trasportato armi e documenti compromettenti. Per sei giorni i fascisti la seviziarono, la accecarono, ma Irma non disse una parola, non rivelò i nomi dei propri compagni; e così dopo aver subito le peggiori torture, la portarono ai piedi della collina di San Luca e la fucilarono. Anche lei ottenne il 14 agosto del 1944 la medaglia d'oro al valor militare.

Teresa Adele Binda, madre di un partigiano, visse per un periodo con lui sulle montagne. Tornata a casa fu prelevata dai nazifascisti che la incarcerarono e la torturarono per estorcerle informazioni, ma non parlò, e fu fucilata. Nel 2008 fu onorata con la medaglia d'oro al merito civile alla memoria.

Giustina Abbà, operaia, è stata la prima donna ad abbracciale la causa partigiana in Istria. Organizzò uno sciopero della fame tra le sue compagne, per protestare contro la guerra e contro la scarsa distribuzione di cibo.

 

Partigiane italiane decorate con medaglia d'oro al valor militare

 

Medaglia d'oro al valor militare

Le partigiane italiane decorate con medaglia d'oro al valor militare furono 19:

Episodi particolari

 

A Parma

Uno dei tanti episodi di lotta al regime fascista che ha coinvolto le donne come collettività, fu lo "sciopero del pane" avvenuto a Parma il 16 ottobre 1941. Questo episodio può essere considerato il momento in cui le donne entrarono a far parte integrante del movimento antifascista.

La protesta scoppiò per la riduzione del pane, nonostante Mussolini avesse dato delle rassicurazioni in proposito. Le donne parmensi assaltarono un furgoncino della Barilla che trasportava il pane, le operaie uscirono dalle fabbriche e cominciarono a manifestare per le vie della città, molte di loro vennero immediatamente arrestate.

Il 14 aprile 1944 nel parmense, un gruppo di partigiani venne catturato in montagna da un gruppo di tedeschi, vennero reclusi e poi condannati alla pena capitale. I Gruppi di difesa della donna organizzarono una manifestazione nella data del processo e all'uscita dal tribunale i partigiani trovarono centinaia di donne che chiedevano il loro rilascio. Vi furono degli scontri con i tedeschi che cominciarono a sparare e molte donne vennero arrestate e portate in San Francesco. Pochi giorni dopo arrivò la notizia che "per ordine del Duce l'esecuzione della sentenza per i condannati alla pena capitale è stata sospesa". L'avvenimento venne riportato su tutti i giornali che evidenziarono la lotta condotta dalle donne.

 

A Roma

Un altro episodio interessante avvenne a Roma il 7 aprile 1944, in prossimità del Ponte dell'Industria (conosciuto come "Ponte di Ferro"): un gruppo di donne insieme a ragazzi e anziani, tentarono l'assalto al mulino Tese, per impadronirsi del pane destinato ai tedeschi.

Le SS e fascisti intervennero subito, spararono sulla folla, trascinarono dieci donne fino alla spallata del ponte e poi le fucilarono. Le donne uccise erano: Clorinda Falsetti, Italia Ferraci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistoleri e Silvia Loggreolo.

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Eva Colombo
Eva Colombo (Parabiago24 luglio 1916 – Agrate Brianza24 novembre 2004) è stata una partigiana italiana.

Biografia

Eva Colombo nasce a Parabiago il 24 Luglio del 1916, figlia di Emilio Tranquillo e Adele Magni. Il padre Emilio (1886-1966), meglio conosciuto con lo pseudonimo di Filopanti, ferroviere anarco sindacalista fu, sin dalla prima ora, fiero oppositore del Fascismo. Al momento dell’occupazione Tedesca aderisce alla Resistenza con una prima esperienza nei GAP per poi trasferirsi nell’Ossola dove parteciperà ai più sanguinosi combattimenti contro i nazi-fascisti e dove rivestirà, nel breve periodo della Repubblica partigiana dell'Ossola 10 settembre - 23 ottobre 1944, la carica di Capo della Polizia. Nel dopoguerra diverrà funzionario del PCI e prenderà parte nel Novarese alle lotte bracciantili di cui sarà la testa.

Sarà Emilio, abbandonato dalla moglie nel 1926, ad occuparsi di Eva e degli altri due figli. Tuttavia, il suo spirito ribelle e le sue idee politiche lo condussero più volte ad essere licenziato ed arrestato. Costretto a continui spostamenti, morirà nel 1966 all’Ospedale Sant’Anna di Como. Eva vive quindi una giovinezza ricca di tribolazioni e l’influenza di una personalità paterna così marcata segnerà inevitabilmente la sua educazione. Compie studi modesti - scuola complementare - e vivrà con il padre e i fratelli sino al 1937 quando incontra Jonio Salerno che sposerà nel 1939. Nello stesso anno Jonio verrà richiamato nell’esercito ove rimarrà sino all’autunno del ’40 quando, su richiesta dell’azienda bellica per la quale aveva già lavorato, verrà fatto rientrare in servizio e trasferito a Firenze seguito da Eva.

Nell’autunno del 1941 Jonio è di nuovo richiamato nell’esercito. Eva resterà invece a Firenze sino al 25 Luglio del 1943 quando si trasferirà a Milano presso la madre del marito, fervente antifascista la cui casa costituiva un punto di ritrovo ed un florido consesso di discussioni per tutti gli oppositori, milanesi e non, del regime. È in questo periodo milanese che Eva riallaccia i contatti con il padre che, dopo l’8 Settembre, quale militante del PCI cui aveva aderito, era entrato in contatto con la nascente Resistenza partecipando alle prime azioni delle formazioni GAP. Padre e figlia discutono della volontà di Eva di entrare a sua volta nella Resistenza. Il padre le prospetta i rischi. Insieme rompono gli indugi ed Eva prende contatto con i gruppi organizzati del PCI impegnati nella lotta al nazi-fascismo.

Nei primi mesi del 1944 Eva, nome di battaglia "Susi", inizia la sua attività di staffetta di collegamento tra Milano e le formazioni Partigiane della Valtellina ed è alla fine dell’estate dello stesso anno che durante una delle sue missioni verrà arrestata e quindi condotta e rinchiusa nel carcere di Sondrio, dove subirà pesanti percosse e sevizie. Verrà trasferita nel carcere di Como dove le verrà riservato il medesimo atroce trattamento per poi essere definitivamente tradotta a San Vittore a Milano nel braccio gestito dai Tedeschi la cui destinazione finale si risolveva nella fucilazione o nell'internamento nei campi di concentramento tedeschi. È qui che Eva conoscerà la compagna Partigiana “Sandra” Onorina Brambilla detta Nori moglie del valoroso e celebre protagonista della Resistenza torinese e milanese, di cui fu organizzatore dei GAP, Giovanni Pesce, medaglia d’Oro al valor militare. In questo stesso periodo il Comando dei Partigiani dell'Oltrepò Pavese ed il Comando di Piazza Tedesco intrecciano trattative per uno scambio di prigionieri. Eva rientra nello scambio e viene liberata nei primi giorni di Novembre, passando attraverso il Carcere di Novi Ligure ove venne consegnata al Comando stesso, in cambio del rilascio di due fascisti e di un ufficiale tedesco.

Ecco allora che la storia di Eva si intreccia con la resistenza dell’Oltrepò (e con la valorosa amica di una vita Dina Croce) cui si aggrega agli inizi di novembre, giusto in tempo per subire gli effetti del grande rastrellamento messo in atto dai nazi-fascisti (23 novembre) che per tutto il mese successivo provocò il quasi totale blocco delle attività partigiane. Eva, rintanandosi per molti giorni nelle “buche”, trovò scampo e riuscì a sfuggire all’atroce rastrellamento. Tante sono le testimonianze ed i riscontri storici dell’importanza dell’attività svolta da Eva, la ragazza coraggiosa che assomiglia a una bella indiana d’America (cit. Paolo Murialdi), nell’Oltrepò Pavese. Eva, infatti, collaborerà sino all’insurrezione finale dell’aprile 1945 fungendo da collegamento tra il Comando unificato dell’Oltrepò acquartierato a Zavattarello e il CLNAI di Milano ed accompagnando su e giù tra Milano e l’Oltrepò il partigiano Riccardo.

È proprio con il Comando unificato dell’Oltrepò di stanza a Zavattarello alla guida delle 4 Divisioni sotto il comando dapprima di Domenico Mezzadra -l’Americano- e successivamente di Italo Pietra –Edoardo- che Eva nei giorni dell’insurrezione scende in pianura. Il gruppo Partigiano liberata Voghera, Broni, Casteggio e Stradella entrerà a Pavia nella giornata del 25 aprile, "anche il comando di 2000 partigiani va a piedi. Siamo circa 15 uomini e 2 staffette, Susi e Dina" (cit. Paolo Murialdi)[5]. Il gruppo trascorrerà la notte del 25 aprile al castello di Pavia e ripartirà nel tardo pomeriggio del giorno successivo alla volta di Milano dove sarà la prima divisione in assoluto a fare la propria entrata in città. In questa occasione insieme ad Eva ritroviamo anche i Partigiani Edoardo e Riccardo. Quest’ultimo, agli ordini di Walter Audisio "Valerio", si recherà a Dongo e nella giornata del 28 aprile prenderà parte alla fucilazione dei gerarchi fascisti.

Eva sfilerà a Milano nella grande manifestazione del 6 maggio del 1945 e sarà proprio lei la porta bandiera della formazione Partigiana dell’Oltrepò Pavese, così come attestato da una fotografia scattata in quell'occasione. Eva ritroverà quindi Jonio, che dopo l’8 settembre 1943 era entrato come volontario nel Corpo Italiano di Liberazione partecipando assieme agli alleati alla liberazione dell’Italia risalendo dal sud, testimonia che entrando in Bologna, dopo la liberazione della città avvenuta il 21 aprile, sente cantare alla radio la canzone Partigiana “Fischia il vento”. La voce gli rimane impressa. Scoprirà poi il motivo: la canzone non era stata infatti intonata da una vera cantante. Ad intonarla fu la sua Eva che partecipò all’occupazione degli studi EIAR di Milano. È bene ricordare che la voce narrante in quelle stesse prime trasmissioni della Milano liberata era quella di Enzo Biagi. Nella seconda metà di maggio, Eva verrà smobilitata ed uscirà dai ranghi delle formazioni Partigiane. Dopo la Liberazione lavorerà dapprima come segretaria al CLNAI a Milano e successivamente nell’ANPI Provinciale e Nazionale.

Presterà in seguito servizio come segretaria alle Cooperative regionali e sarà attiva politicamente nel PCI-zona Città Studi. Nel 1995 si trasferisce con Jonio ad Agrate Brianza. Qui morirà il 25 novembre 2004, ove riposa nel locale camposanto.

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Lina Merlin
Lina Merlin, all'anagrafe Angelina Merlin (Pozzonovo15 ottobre 1887 – Padova16 agosto 1979), è stata una politicapartigiana e insegnante italiana, componente dell'Assemblea Costituente e prima donna a essere eletta al Senato della Repubblica. Il suo nome è legato alla legge 20 febbraio 1958, n. 75 - conosciuta come Legge Merlin - con cui venne abolita la prostituzione legalizzata in Italia.

Biografia

 

Origini e formazione

Originaria di Chioggia, era figlia di Giustina Poli, insegnante, e Fruttuoso Merlin, segretario comunale a Pozzonovo.

Visse a Chioggia per tutta l'infanzia e la giovinezza. Conseguita la maturità magistrale presso l'istituto delle Suore Canossiane, si trasferisce a Grenoble, in Francia, dove approfondisce le sue conoscenze di lingua e letteratura francese, materia in cui conseguirà successivamente la laurea.

La giovane maestra Lina Merlin cominciava a rendersi conto delle condizioni in cui vivevano le donne del suo tempo: in particolare non tollerava l'ipocrisia dei capi di famiglia religiosi e osservanti, che non trovavano alcuna contraddizione tra i loro principi e il frequentare le prostitute. Le case chiuse erano infatti considerate luogo di svago dove i giovani potevano fare esperienza, mentre sarebbe stato scandaloso per una donna avere rapporti sessuali fuori del matrimonio.

Nel 1919 un amico la invita a far parte del movimento fascista: c'è bisogno di organizzare le donne e lei sembra la persona ideale. Lina si sente attratta invece dagli ideali del socialismo che ritiene più vicini alla sua mentalità e alla sua morale.

Si iscrive perciò al Partito Socialista Italiano, cominciando a collaborare al periodico "La difesa delle lavoratrici", di cui in seguito assumerà la direzione. Collabora con il deputato socialista Giacomo Matteotti a cui riferisce nei dettagli le violenze perpetrate dalle squadre fasciste nel padovano.

 

La militanza antifascista

Quando, nel 1925, dopo l'assassinio di Giacomo MatteottiMussolini consolida il suo potere, il destino di Angela è ormai segnato. In meno di ventiquattro mesi viene arrestata cinque volte. Inoltre nel 1926 viene licenziata dal suo impiego di insegnante perché si rifiuta di prestare il giuramento di fedeltà al regime, obbligatorio per gli impiegati pubblici. In seguito alla scoperta del complotto per attentare alla vita del duce da parte di Tito Zaniboni, il suo nome viene iscritto nell'elenco dei "sovversivi" affisso nelle strade di Padova. Lina quindi si trasferisce a Milano dove pensa sia più difficile essere rintracciata. Lì comincia a collaborare con Filippo Turati, ma viene arrestata e condannata a cinque anni di confino, in Sardegna. La prima destinazione fu Nuoro, ma la città era considerata “un covo di Sardisti avversi al regime” per cui dopo tre giorni venne spostata a Dorgali, dove rimase solo tre mesi per essere divenuta "troppo popolare". L'ultima destinazione fu Orune. Anche in quel luogo riesce a conquistarsi il rispetto e la fiducia degli abitanti e soprattutto delle donne, ad alcune delle quali insegnerà a leggere e a scrivere.

Tornata a Milano nel 1930, durante una riunione clandestina incontra il medico ed ex deputato socialista di Rovigo Dante Gallani, che rimane colpito dalla sua eloquenza. Si sposano nel 1932, ma appena quattro anni dopo lui muore. Rimasta vedova a 49 anni, prende parte attivamente alla Resistenza, donando ai partigiani la strumentazione medica e i libri del marito e raccogliendo fondi e vestiario per i partigiani. Da una stima effettuata a guerra finita, nei GDD costituitisi in tutta Italia si contavano circa 59.000 donne. Da questa organizzazione nascerà l'Unione Donne Italiane.

In questo periodo Lina prende parte ad azioni di guerra partigiana, rischiando più volte la vita. Catturata dai nazisti, riesce a sfuggire con uno stratagemma. Scrive articoli sul periodico socialista clandestino Avanti!, e nella sua casa di via Catalani 63 Lelio BassoSandro PertiniRodolfo Morandi e Claudia Maffioli organizzano l'insurrezione. Lei riceverà l'incarico di occuparsi del settore scolastico, e insieme al professor Giorgio Cabibbe e ai partigiani della Brigata Rosselli occuperà il Provveditorato agli Studi di Milano, imponendo la resa. il 27 aprile 1945 viene nominata dal CLNAI Commissario per l'Istruzione di tutta la Lombardia.

 

La carriera politica

Dopo la fine della guerra Lina si trasferisce a Roma alla direzione nazionale del PSI. Nel 1946 viene eletta all'Assemblea Costituente.

I suoi interventi nel dibattito costituzionale, quale membro della "Commissione dei 75", risulteranno determinanti per la tutela dei diritti delle donne, e lasceranno un segno indelebile nella Carta Costituzionale. A lei si devono infatti le parole dell'articolo 3: "Tutti i cittadini...sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso", con le quali veniva posta la base giuridica per il raggiungimento della piena parità di diritti tra uomo e donna, che fu sempre l'obiettivo principale della sua attività politica. È inoltre degna di nota l'opera di mediazione da lei esercitata tra opinioni contrapposte riguardo alla stesura dell'articolo 40, concernente il diritto di sciopero, proponendo una formulazione analoga a quella presente nel preambolo della Costituzione della IV repubblica francese.

Candidata dal PSI nel collegio di Rovigo, viene eletta al Senato della Repubblica il 18 aprile del 1948. Fin dai primi giorni della sua attività parlamentare dedica tutti i suoi sforzi al miglioramento della condizione femminile in Italia e allo stanziamento di risorse per lo sviluppo dell'area del Polesine, una delle regioni più depresse del settentrione d'Italia, che il 14 novembre del 1951 verrà devastata da una catastrofica alluvione che causerà 84 morti e più di 180.000 senzatetto.

Uno dei punti cardine, se non il principale, dell'opera politica di Lina Merlin è stata la battaglia per abolire la prostituzione legalizzata in Italia, seguendo l'esempio dell'attivista francese Marthe Richard, che già nel 1946 aveva fatto chiudere le case di tolleranza in Francia, ma in seguito ammise di aver cambiato posizione sulla prostituzione. La legge venne approvata, dopo 10 anni di dibattito, il 20 febbraio 1958.

Nelle sue battaglie, Merlin seppe mostrare tutta la sua tenacia e - in virtù del rispetto e dell'autorevolezza di cui godeva - seppe ribattere in maniera efficace e tagliente alle battute, talvolta assai poco cavalleresche, che le venivano spesso rivolte nei corridoi di Palazzo Madama dai colleghi.

Nel 1961 le venne fatto sapere che il partito non intendeva ripresentare la sua candidatura nel collegio di Rovigo, dov'era stata rieletta al Senato nel 1953 e alla Camera dei deputati nel 1958, e lei reagì strappando la tessera. Nel suo discorso di commiato dichiarò che le idee sono sì importanti, ma camminano con i piedi degli uomini, e che lei non ne poteva più di «fascisti rilegittimati, analfabeti politici e servitorelli dello stalinismo».

 

Gli ultimi anni e la morte

A 77 anni, nonostante le esortazioni dei suoi sostenitori che avrebbero voluto rivederla candidata anche nelle elezioni del 1963 come indipendente, Lina Merlin decise di ritirarsi dalla politica e di tornare a vivere nella sua casa di Milano insieme a Franca Cuonzo Zanibon, figlia di una sua cugina precocemente scomparsa che le era stata affidata e che lei adotterà come figlia.

Nel 2013 le sue ceneri sono state traslate in un loculo della cripta del Famedio, zona del medesimo cimitero destinata a personaggi illustri.

 

L'autobiografia

La sua autobiografia verrà pubblicata solo nel 1989, dieci anni dopo la sua scomparsa, per iniziativa di Elena Marinucci, anche lei senatrice socialista. Nel libro si legge, tra l'altro: «Sono stata coerente con la mia decisione, non ho accolto inviti né da sinistra né da destra, ho rifiutato interviste che avrebbero dato a un fatto serio e doloroso l'aspetto del pettegolezzo, dal quale rifuggo, e di una meschina vendetta derivante da un astio che non sento».

 

L'attività politica

Negli anni seguenti l'approvazione della famosa legge contro lo sfruttamento della prostituzione, proseguì l'attività parlamentare con altri importanti interventi legislativi a favore della condizione femminile e contro le discriminazioni ai danni dei più deboli.

In occasione dell'alluvione del Polesine del novembre 1951, prese parte attiva, con gli altri parlamentari della regione, alla legislazione di soccorso per le popolazioni e le zone colpite. Scrisse Giulio Andreotti:

«Ricordo le sue premure per i bambini ed anche – passi l'accostamento – per le migliaia di tacchini, ingrassati per l'esportazione natalizia e destinati ai militari americani di stanza in Germania; le povere bestie si erano ritirate su strisce di terra che ne evitavano l'affogamento ma non la morte per freddo o fame. Voleva a ogni costo che anche i tacchini fossero messi al sicuro dagli elicotteri militari; ed ottenne comunque che gli elicotteri stessi lanciassero su di loro abbondanti razioni di mangime.»

A lei si devono, tra l'altro, l'abolizione del "nomen nescio" che veniva apposto sugli atti anagrafici dei trovatelli (legge 31 ottobre 1955 n. 1064), l'equiparazione dei figli naturali ai figli legittimi in materia fiscale, la legge sulle adozioni che eliminava le disparità di legge tra figli adottivi e figli propri, e la soppressione definitiva della cosiddetta "clausola di nubilato" nei contratti di lavoro, che imponeva il licenziamento alle lavoratrici che si sposavano (legge del 9 gennaio 1963 n. 7).

La sua intransigenza di militante appassionata e la sua inflessibilità con sé stessa e con gli altri, le procurarono ostilità e inimicizie persino nell'ambito del suo stesso partito. All'inizio degli anni sessanta infatti, il PSI si stava spostando dall'opposizione intransigente verso la collaborazione con la Democrazia Cristiana e di lì a poco avrebbe dato vita ai governi di "centrosinistra".

Anche parecchi suoi compagni di partito mostravano un atteggiamento ostile nei suoi confronti, in particolare tale Franco Bellinazzo, divenuto funzionario della federazione socialista di Rovigo dopo essere stato membro della GNR della RSI durante la guerra e in seguito militante del PCI, il quale, al sentir nominare il suo nome, soleva esclamare «Ma quando xe che la more?».

 

Intitolazioni

A Lina Merlin sono intitolate aree di circolazione nei Comuni di Adria, Chioggia, Porto Fuori (Ravenna), Rovigo. La città di Padova le ha dedicato un giardino.

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NILDE IOTTI
Nilde Iotti, all'anagrafe Leonilde Iotti (Reggio nell'Emilia10 aprile 1920 – Poli4 dicembre 1999), è stata una politica italiana, prima donna nella storia dell'Italia repubblicana a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, la presidenza della Camera dei deputati, incarico che detenne per tre legislature tra il 1979 e il 1992, che rappresenta il più lungo mandato come presidente della Camera dall'istituzione della Repubblica.

Biografia

Figlia di un ferroviere e sindacalista socialista, Egidio, licenziato a causa del suo impegno politico, visse gli anni dell'adolescenza in un contesto di forti difficoltà economiche. Rimase orfana del padre nel 1934, e poté proseguire gli studi grazie a borse di studio che le permisero di iscriversi all'Università Cattolica di Milano, ove ebbe tra i suoi professori Amintore Fanfanilaureandosi in lettere nel 1942.

Iscrittasi, dal 5 ottobre 1942, al Partito Nazionale Fascista presso la Federazione dei Fasci Femminili di Reggio Emilia – passaggio obbligatorio onde poter svolgere l'attività di insegnante – esercitò l'insegnamento in alcune scuole tecniche della sua provincia natale, concludendo la sua esperienza professionale nel 1946.

A seguito della situazione in cui era precipitata l'Italia dopo l'armistizio dell’8 settembre 1943 prese forma il suo interesse verso la politica, avvicinandosi al PCI e partecipando alla Resistenza, svolgendo inizialmente la funzione di staffetta porta-ordini, poi aderendo ai Gruppi di difesa della donna, formazione antifascista del PCI, diventandone un personaggio di primo piano. Eletta nel dopoguerra presidente dell'Unione Donne Italiane di Reggio Emilia, nella primavera del 1946 entrò nel consiglio comunale della città di Modena come indipendente nelle file del Partito Comunista Italiano, aderendo poco dopo ad esso. Nel giugno dello stesso anno venne candidata ed eletta membro dell'Assemblea Costituente.

Parallelamente nel 1946 iniziò a Roma la sua relazione con il Segretario Nazionale del PCI, Palmiro Togliatti, di 27 anni più anziano (già marito di Rita Montagnana e padre di Aldo), che terminerà soltanto con la morte del leader comunista, nel 1964. Il loro legame divenne pubblico nella contingenza dell'attentato del 1948. Togliatti lasciò per lei moglie e figlio, decisione che fu dura da accettare per i militanti del PCI. Insieme chiesero e ottennero l'affiliazione di una bambina orfana, Marisa Malagoli, sorella minore di uno dei sei operai uccisi da agenti della Celere in assetto "antisommossa" il 9 gennaio 1950, a Modena, nel corso di una manifestazione operaia.

Nell'Assemblea Costituente, Nilde Iotti fece parte della Commissione dei 75 della camera dei deputati incaricata della stesura della Costituzione.

Rieletta nel 1948 alla Camera dei deputati, sedette tra i banchi di Montecitorio ininterrottamente sino al 1999 e per lungo tempo ne presiedette l'Assemblea: venne infatti eletta Presidente della Camera dei deputati per tre volte consecutive, ricoprendo così quella carica per 13 anni, dal 1979 al 1992. Nessuno nella storia d'Italia ha ancora raggiunto il suo primato, esercitato coniugando alla guida imparziale della Camera una strenua difesa del parlamentarismo.

Nel 1956, entrò a far parte del comitato centrale del Partito e nel 1962 della direzione nazionale. Rieletta nel 1963 alla Camera, fu membro della Commissione Affari Costituzionali, incentrando la sua attività sulla rilevanza del ruolo femminile nel mondo del lavoro e delle relazioni familiari.

Negli anni successivi il suo impegno principale risultò essere la riforma delle norme civili, quali l'introduzione del divorzio nell'ordinamento giuridico e nel successivo mantenimento attuato col referendum abrogativo del 1974.

Nel 1969, primo anno della partecipazione dei parlamentari comunisti al Parlamento europeo, Iotti fece parte della prima delegazione italiana. In quegli anni si impegnò per riformare l'elezione al parlamento stesso, attraverso la promulgazione della legge sul suffragio europeo diretto. Rimarrà deputata europea fino al 1979, anno delle prime elezioni dirette.

Nel clima di distensione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, maturò in quegli anni la proposta di eleggere Nilde Iotti come prima donna presidente della Camera. All'apertura della VIII legislatura, le forze politiche concordarono sulla necessità istituzionale di eleggere un appartenente dell'opposizione alla terza carica dello Stato. Al rifiuto di Pietro Ingrao di proseguire nel ruolo istituzionale, la scelta ricadde su Nilde Iotti, eletta al primo scrutinio con 433 voti favorevoli su 615 votanti. Il suo discorso di insediamento pose al centro la figura della donna nella società, l'imparzialità politica e le misure necessarie per combattere il terrorismo.

 

«Io stessa - non ve lo nascondo - vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione»

(Nilde Iotti, Discorso di insediamento alla Presidenza della Camera)

 

Nel 1987 ottenne un incarico di governo con mandato esplorativo da parte del Presidente della Repubblica Cossiga che si concluse senza esiti; fu la prima donna e la prima esponente comunista ad arrivare tanto vicino alla Presidenza del Consiglio. Nel 1991, a seguito di indiscrezioni secondo le quali lo stesso Cossiga voleva nominarla senatrice a vita, fece sapere di non essere interessata, preferendo rimanere presidente della Camera. Nel 1992 fu inoltre la candidata di sinistra alla Presidenza della Repubblica.

Durante la sua vita ricevette inoltre numerose mansioni di prestigio quali: la presidenza della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali costituita il 9 settembre 1992 (dal marzo 1993, subentrando al dimissionario Ciriaco De Mita, sino al 7 aprile 1994); la presidenza della delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (1996 - 1999), di cui fu anche vicepresidente nello stesso periodo.

Rinunciò a tutti gli incarichi il 18 novembre 1999 a causa di gravi problemi di salute. La Camera dei deputati accolse le sue dimissioni con un lunghissimo applauso; il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, suo vecchio compagno di partito, scrisse nell'occasione una lettera pubblica, e tornò a ricordare la Iotti nel 2006, nel discorso pronunciato alle Camere durante il giuramento per la Presidenza della Repubblica: «E ancora, abbiamo da contare - mi si lasci ricordare la splendida figura di Nilde Iotti - sulle formidabili risorse delle energie femminili non mobilitate e non valorizzate né nel lavoro né nella vita pubblica: pregiudizi e chiusure, con l'enorme spreco che ne consegue, ormai non più tollerabili.» Nilde Iotti morì pochi giorni dopo le sue dimissioni, il 4 dicembre 1999, per arresto cardiaco, alla clinica Villa Luana di Poli, presso Roma.

funerali di Stato furono tenuti con rito civile secondo sue disposizioni, poiché era atea. È sepolta presso il Cimitero del Verano di Roma (Famedio del PCI, Nuovo Reparto, riquadro 8 distinti, entrata Portonaccio).

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Tina Costa

Tina Costa (Gemmano11 novembre 1925 – Roma20 marzo 2019) è stata una partigiana e sindacalista italiana.

 

Biografia

Nata a Gemmano in provincia di Rimini da una famiglia antifascista (il padre Matteo era socialista, la madre Tullia e i suoi fratelli erano comunisti), Costa abbraccia sin da giovane la fede politica di famiglia, rifiutandosi di indossare a scuola la divisa di figlia della lupa, cosa che la rese vittima di numerose angherie da parte dei docenti.

 

Durante la guerra

Durante la seconda guerra mondiale, Tina Costa prende parte alla Resistenza, iscrivendosi inoltre al Partito Comunista Italiano già durante la guerra d'Etiopia, e prende parte in numerose occasioni a missioni di staffetta, soprattutto lungo la linea Gotica.

Il 14 agosto 1944, Tina Costa aveva ricevuto il compito di raggiungere tre partigianiMario CapelliLuigi Nicolò e Adelio Pagliarani, al centro di Rimini; tuttavia, Costa fu avvisata in extremis di non recarsi al luogo dell'incontro, raccomandazione che si rivelò provvidenziale, poiché quel giorno i Tre Martiri furono catturati dai nazifascisti, torturati e impiccati due giorni dopo.

Durante la guerra, fu arrestata insieme alla madre e uno dei fratelli, venendo condannata all'internamento in un lager a Fossoli. Tuttavia, durante il trasporto, il convoglio fu colto di sorpresa da un bombardamento: Costa e la sua famiglia ne approfittarono per fuggire e mettersi in salvo.

 

Attivismo

Rimasta iscritta al PCI fino alla sua dissoluzione nel 1991, si iscrisse poi a Rifondazione Comunista. È stata inoltre fino alla morte un membro attivo della Confederazione Generale Italiana del Lavoro[7] e membro del direttivo nazionale dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, di cui era anche vicepresidente vicaria per la sezione provinciale di Roma.

Nel 1960, Costa, trasferitasi da Rimini a Roma, prese parte alle protese contro il governo Tambroni, che godeva del sostegno parlamentare da parte del Movimento Sociale Italiano, evitando poi l'arresto fingendosi una turista.

Nel giugno 2018, Costa è stata sostenitrice e in seguito anche testimonial della manifestazione del gay pride tenutasi quel mese a Roma, schierandosi apertamente contro le dichiarazioni del ministro per le politiche familiari Lorenzo Fontana.

 

Morte

Costa è deceduta a Roma il 20 marzo 2019, all'età di 93 anni, dopo una breve malattia. Cordoglio per la sua morte è stato espresso dal governatore del Lazio Nicola Zingaretti e dalla sindaca di Roma Virginia Raggi.

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Zoya Kosmodemyanskaya (in russo: Зо́я Анато́льевна Космодемья́нская?Osino-Gaj8 settembre 1923 – Petriščevo29 novembre 1941) è stata una partigiana e militare sovietica, membro del reparto sabotatori-esploratori del comando del Fronte Occidentale dell'Armata Rossa.

Fu la prima donna ad essere insignita del titolo di Eroe dell'Unione Sovietica (alla memoria) durante la Seconda guerra mondiale. Divenne un simbolo dell'eroismo sovietico nella Grande guerra patriottica. Sulla sua figura si è sviluppata un'ampia pubblicistica, ed è stata protagonista di opere letterariecinematografichepittoriche; a lei sono inoltre stati dedicati monumenti ed esposizioni museali.

Famiglia

Zoya Kosmodemyanskaya nacque in una famiglia di religiosi del villaggio di Osino-Gai, nell'Oblast' di Tambov. Il nonno, sacerdote, fu imprigionato e ucciso dai bolscevichi nel 1918. Il padre, Anatolij  Kosmodemyansky, studiò in seminario, ma non lo terminò e sposò un'insegnante del posto, Ljubov' Čurikova.

Nel 1929 la famiglia si trasferì in Siberia. Secondo alcune fonti, vi fu deportata per la contrarietà di Anatolij alla collettivizzazione, ma la stessa Ljubov', in un'intervista di molti anni dopo, sostiene che fuggirono in Siberia per il timore di ritorsioni. Durante l'anno vissero nel villaggio di Šitkino, ma successivamente riuscirono a fare ritorno a Mosca, forse grazie all'intervento della sorella di Ljubov', che lavorava al Narkompros. La stessa Ljubov', nel libro Racconto di Zoja e Šura (in russo: Повесть о Зое и Шуре), scrive che il ritorno a Mosca avvenne dopo una lettera della sorella Ol'ga.

Il padre di Zoja morì nel 1933 in seguito ad un'operazione all'intestino. Il fratello Aleksandr, comandante di una batteria di artiglieria semovente e tenente anziano della Guardia, morì nell'attacco a Vierbrüderkrug, nella Prussia Orientale, e fu a sua volta insignito del titolo di Eroe dell'Unione Sovietica.

 

Adolescenza

A scuola Zoya aveva un buon rendimento, specialmente in storia e letteratura, e voleva iscriversi all'Istituto di Letteratura. Tuttavia ebbe rapporti non sempre ottimi con i compagni, e forse per questo nel 1939 iniziò a manifestare disturbi nervosi. Nel 1940 soffrì di una grave forma di meningite che la costrinse ad un periodo di riabilitazione presso l'istituto per malattie nervose di Sokol'niki, dove Zoja fece amicizia con lo scrittore Arkadij Gajdar, anch'egli ricoverato lì. In quell'anno Zoja riuscì a completare la nona classe alla scuola n° 201, nonostante il gran numero di assenze causate dalla malattia.

 

Missioni militari

Il 31 ottobre 1941 Zoya, con altri duemila volontari del Komsomol, si presentò nel punto di raccolta presso il cinema Kolizeum e da lì fu destinata alla scuola per sabotatori, per diventare membro del reparto esploratori-sabotatori, ufficialmente denominato Reparto partigiano 9903 del comando del Fronte Occidentale. Dopo un breve addestramento, Zoja entrò a far parte di un raggruppamento che il 4 novembre fu inviato nel Volokolamskij rajon, dove portò a termine con successo la missione di minare alcune strade.

Il 17 novembre giunse da Stalin l'Ordine del Comandante in Capo n°428, che stabiliva di «distruggere ed incendiare tutti gli insediamenti abitati nelle retrovie dell'esercito tedesco nel raggio di 40-60 km dal villaggio successivo e di 20-30 km a destra e sinistra delle strade». In seguito a quest'ordine, il 18 novembre (secondo alcune fonti il 20) i comandanti dei raggruppamenti di sabotatori Provorov (del cui raggruppamento faceva parte Zoja) e Krajnov ricevettero l'obiettivo di distruggere nel giro di 5-7 giorni dieci insediamenti abitati, tra cui il villaggio di Petriščevo, nel Ruzskij rajon. I raggruppamenti furono equipaggiati con tre bottiglie di liquido incendiario, una pistola, rancio per cinque giorni e una bottiglia di vodka. Usciti insieme per la missione, i due gruppi (di dieci membri ciascuno) caddero sotto il fuoco nemico nei pressi del villaggio di Golovkovo, a dieci chilometri da Petriščevo, e subirono pesanti perdite. I superstiti si riunirono sotto il comando di Krajnov.

Il 27 novembre, alle due del mattino, Boris Krajnov, Vasilij Klubkov e Zoja Kosmodem'janskaja riuscirono a raggiungere Petriščevo e ad incendiare tre abitazioni in cui si erano installati ufficiali e soldati tedeschi. Di quello che successe in seguito si sa che Krajnov non attese gli altri due nel punto convenuto e riuscì a rientrare; Klubkov fu catturato dai tedeschi e Zoja, rimasta sola, decise di tornare a Petriščevo a continuare l'azione di sabotaggio. Nel frattempo, però, i tedeschi avevano allertato la popolazione locale, sollecitandola a fare la guardia alle case.

 

Cattura, torture ed esecuzione

La sera del 28 novembre, mentre tentava di incendiare una rimessa, Zoja fu vista dal proprietario, che chiamò i tedeschi e la ragazza venne catturata. Durante il successivo interrogatorio Zoya disse di chiamarsi Tanya e non rivelò nulla di preciso. Fu allora spogliata e frustata con le cinture, e poi fatta camminare per oltre quattro ore scalza e con indosso solo la biancheria nel gelo della strada. Dopo ulteriori torture, la mattina seguente alle 10,30 Zoja fu condotta, con al collo un cartello che diceva «incendiaria», verso il luogo dove era stato predisposto il patibolo.

Secondo quanto riferisce una testimone, raggiunto il patibolo Zoja avrebbe esortato i cittadini a non restare inermi e a combattere. «Per quanti di noi impiccheranno, non potranno impiccarci tutti, non potranno impiccare tutti i 170 milioni di persone che difendono l'Unione Sovietica»: queste sarebbero state le sue ultime parole. Dopo l'esecuzione, il suo corpo fu lasciato appeso in strada per oltre un mese, esposto ad ulteriori vessazioni da parte dei tedeschi.

 

Onorificenze

Eroina dell'Unione Sovietica

Ordine di Lenin

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