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Milano, Nur: "Ho rischiato di morire come Saman Abbas, per salvarmi sono fuggita da casa"

Milano, Nur: "Ho rischiato di morire come Saman Abbas, per salvarmi sono fuggita da casa"

«Quando ho letto la storia di Saman mi sono riconosciuta. È stata una pazza a tornare a casa, perché lo ha fatto, perché? Non ci dobbiamo fidare di nessuno, io l’ho capito presto». A parlare è un’altra ragazza originaria del Pakistan, Nur, 21 anni, anche lei costretta a un matrimonio combinato che non voleva accettare. È stata picchiata, insultata e minacciata dai genitori e dagli zii che per paura della fuga e del «disonore» le avevano tolto cellulare e documenti e l’avevano di fatto reclusa dentro casa facendole temere per la sua incolumità e per il suo futuro. Lei, a differenza di Saman, uccisa dai familiari, è riuscita a scappare. Dalla comunità protetta e segreta in cui si trova da più di un anno a fatica, racconta.
Nur è nata in un piccolo villaggio del Pakistan ed è venuta a Milano a sedici anni. È la figlia maggiore: le sorelle hanno 20 e 18 anni, il fratello 14. «Mia mamma mi ha messo al mondo a gennaio, ma il nonno è andato a registrarmi solo cinque mesi dopo, per questo ho due date di nascita — racconta con amarezza —. In Pakistan studiavo, ma quando sono arrivata a Milano non potevo più uscire da sola. Non mi hanno fatto iscrivere a un liceo né lavorare. Potevo solo stare a casa, dormivo tutto il giorno. È stato un periodo molto triste, anche perché non parlavo italiano».
Piano piano riesce a convincere i genitori che studiare la lingua è importante, inizia ad aiutare in oratorio, negli anni conquista persino il permesso di iscriversi a una scuola serale e fare un lavoretto. I guai iniziano quando diventa maggiorenne. La portano in Pakistan due settimane, i pretendenti si fanno avanti senza neanche averla mai vista: «Tanti uomini vogliono venire in Italia, ero comoda per quello», abbassa lo sguardo. La nonna, i genitori e gli zii combinano che lei si sposi con un cugino e a forza la fanno fidanzare, con i suoceri che le infilano al dito un anello (mentre il futuro sposo non era neanche presente alla cerimonia).
Torna in Italia e passano mesi senza neanche sentire il promesso marito. «Non mi piaceva, non lo volevo sentire e non volevo sposarlo ma quando lo dicevo a mia madre, lei mi rispondeva con frasi irripetibili, insulti. Mi diceva che dovevo avere vergogna perché disonoravo la famiglia, che tutti i maschi a letto sono uguali, e poi cercava di convincermi che non sono bella e che dovevo solo ringraziarlo, se lui mi prendeva in sposa». Nur, al ricordo, ancora si strazia: «Mio padre prendeva la cintura e mi picchiava, una volta me l’ha messa al collo e mi ha detto che mi ammazzava perché avevo deciso di mandarlo in rovina. Le mie sorelle urlavano di paura ma mi rimproveravano insistendo che dovevo accettare».
Nur si è sposata via Skype a 19 anni appena compiuti davanti a tre testimoni, «dicendo tre volte sì con il wi-fi che andava e veniva», in contemporanea con la sorella minore, anche lei data in sposa via Skype. Dopo qualche tempo, la spedizione in Pakistan per la festa di matrimonio: «Per due settimane ho dovuto vivere a casa con la famiglia mio marito, ho finto di essere felice per il terrore che non mi lasciassero più tornare in Italia». Finalmente il ritorno a Milano, dove lo sposo doveva raggiungerla appena sistemati i documenti. Lei medita la fuga, capisce che ha poco tempo. Un’amica italiana le consiglia di rivolgersi a un’associazione, lei sistema alcuni vestiti dentro una valigia in cantina, ma la madre li trova. Il padre la picchia ancora una volta a sangue. Quando il suo sposo, insieme a quello della sorella minore, arriva in Italia, la famiglia va a prenderli a Malpensa. Lei e la madre restano in casa. Nur riesce a scappare con solo una maglietta di ricambio e un velo azzurro.
A distanza di due anni, la famiglia di Nur si è spostata in Inghilterra. Lei non sente più nessuno, neanche le sorelle. Prova a rifarsi orgogliosamente una vita, di sera studia, trova un lavoro, parla bene l’italiano, ha un ragazzo pakistano che le piace. Settimana scorsa ha avuto il coraggio di tornare al suo villaggio, per pochissimi giorni, di nascosto, aiutata dalla comunità che la ospita e coperta integralmente con velo e mascherina. «L’ultima volta ci ero stata per il mio matrimonio. Guardandomi in giro, ho detto addio a tutto quello. In quell’istante ho cominciato davvero a vivere da un’altra parte. Io amo il Pakistan, è la mia terra, nelle grandi città ci sono persone libere. Amo anche il mio villaggio perché è il posto dove sono stata bambina. Ma avevo bisogno di dire addio a tutto quello. Guardandomi in giro l’ho fatto. E in quel secondo, ho incominciato davvero a vivere».

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